Ragazzo 1: “Lu Purk sì che è tosto”

Ragazzo 2: “Sì, però pure noi mica siamo mosci. Ci vuo’ coraggio ad anda’ ad Amsterdam. Ma ci vuo’ coraggio pure a resta’ a Montesilvano

È lo scambio di battute in un film del 1999, “La guerra degli Antò“, che racconta la storia di quattro ragazzi di Montesilvano (Pescara) nel 1990.

Devo essere sincero. Quando vidi questo film 20 anni fa, non mi colpì particolarmente. Rivedendolo a distanza di tempo però l’ho rivalutato molto. 

  • Vuoi per l’ambientazione (scusate se ho l’Abbruzzo – con 2 b – nel cuore)
  • Vuoi per la volontà del regista nell’esigere attori veramente abruzzesi per raccontare la storia di ragazzi d’Abruzzo
  • Vuoi per aver dissacrato, usando sana concretezza rurale, la vacuità di “intellettuali” radical chic
  • Vuoi per aver anticipato di molto la vanagloria dei social e la voglia di apparire a tutti i costi (fenomenale la scena con Donatella Raffai in una puntata fittizia di “Chi l’ha visto?”)

Guardatelo se avete del tempo libero. Ma guardatelo soprattutto perché dà voce alle inquietudini dei ragazzi, e le mancate risposte che l’Italia dà alla loro crescita.

Prendiamo la foto di copertina di questo articolo. Mostra Montesilvano nell’Ottobre 1990 (anche se nella realtà è 1999), e Montesilvano nell’Ottobre 2020. Sono passati 30 anni, e nulla è cambiato.

Confrontiamola ora con questa foto che mostra l’evoluzione di Shanghai dal 1990 al 2010.

È a dir poco stupefacente. In soli 20 anni Shanghai ha edificato dal nulla il distretto di Pudong, rendendolo una delle principali capitali finanziarie mondiali. Mentre Milano glorifica infantilmente il dito medio di Cattelan a Piazza Affari, la Cina ha mostrato invece cosa sia la vera irriverenza e come si costruisca nei fatti il riscatto di un Paese.

Immobilismo italiano, e dinamicità cinese. Non c’è bisogno di paroloni o ricami filosofici. Bastano queste semplici immagini per comprendere cosa sia una vera Potenza mondiale e come siano cambiati i rapporti di forza tra le economie nel mondo. E in questo i giovani italiani sono rimasti stritolati.

Chi va piano, va sano e va lontano

Se c’è un proverbio che riassume bene la mentalità italiana e che io invece detesto visceralmente, è questo: “Chi va piano, va sano e va lontano”. Mia nonna poi lo continuava sempre dicendo “Chi va forte, va alla morte”.

Sia ben chiaro: io apprezzo la lentezza e considero il riposo necessario oltre che salutare. Ma in sé, nel bene e nel male, l’andare piano oggi – in un mondo di competizione globale – è catastrofico. Non vai lontano: oggi, chi va piano, finisce rovinato.

Ma poi, perché mai un giovane dovrebbe andare piano? È nel pieno delle sue energie, all’apice della creatività e della volontà costruttiva. Perché mai rallentarlo? Perché non consentirgli di esprimere al meglio il suo potenziale? Ragionando cinicamente come Andreotti (“a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina“), mi verrebbe quasi da pensare che in Italia i giovani siano visti non come forza creatrice, bensì come potenziali rivali nel posto di lavoro da parte delle generazioni più avanti con l’età.

Senza alternative, un giovane si trova di fronte a un bivio:

  • Rimanere a casa, con scarse opportunità di crescita
  • Emigrare, per provare a tramutare mobilità fisica in mobilità sociale

Una cosa purtroppo in crescita: l’emorragia

Di recente la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha pubblicato “Rapporto Italiani nel mondo 2020” che analizza bene il fenomeno dell’emigrazione degli italiani (mio commento: onore alla Chiesa per il rapporto dettagliato, ma sarebbe doveroso avere uno studio simile stilato da organi del Governo italiano).

È interessante, e fa allo stesso tempo male, leggere il rapporto della CEI. L’Italia perde giovani di continuo, e il fenomeno sta diventando un’emorragia:

"L’ultimo anno rispecchia la tendenza complessiva: l’Italia sta continuando a perdere le sue forze più giovani e vitali, capacità e competenze che vengono messe a disposizione di paesi altri che non solo li valorizzano appena li intercettano, ma ne usufruiscono negli anni migliori, quando cioè creatività e voglia di emergere sono ai livelli più alti per freschezza, genuinità e spirito di competizione."

E ancora:

"Se nel 2006 gli italiani regolarmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) erano 3.106.251, nel 2020 hanno raggiunto quasi i 5,5 milioni: in quindici anni la mobilità italiana è aumentata del +76,6%."

Ma, in questa analisi cupa, c’è un punto addirittura ancora più negativo:

"È necessario porre in evidenza un altro elemento: il dato della Sardegna (-14,6%) e, unitamente, anche quello della Sicilia (-0,3%), dell’Abruzzo (1,5%) e della Basilicata (3,4%) si spiega considerando la circolarità del protagonismo regionale. Vi sono regioni, cioè, che oggi hanno raggiunto un grado talmente alto di desertificazione e polverizzazione sociale da non riuscire più a dare linfa neppure alla mobilità."

In poche parole, alcune regioni italiane – tra cui l’Abruzzo – che sono arrivate a un punto di aridità tale da non riuscire neppure più a concepire la mobilità. Una concatenazione di paura, assenza di volontà, paralisi: a me sembra quasi di rileggere, in chiave 2020, il racconto Eveline di James Joyce in Gente di Dublino.

Dico questo perché l’ho toccato tante, troppe, volte con mano quando insegno o faccio da mentore ai ragazzi. Sin da bambini viene loro inculcata così profondamente un’idea malsana di non essere capaci, di non prendere rischi e invece cercare piccole “sicurezze” (qualunque cosa voglia dire “sicurezza” nell’economia italiana di questi anni ’20). Ma come accidenti fai a crescere così come persona? Ti distruggi sia a livello personale che professionale.

Quando lo scorso Agosto scrissi “Lettera #nofilter a un #18enne: #università e #lavoro a #nudo“, ricevetti molti commenti. Ma ce ne è uno che ho specialmente a cuore, ma che allo stesso tempo mi ha sbigottito. Quello di una ragazza calabrese che mi disse: “Grazie per avermi aperto gli orizzonti. Finora avevo sempre pensato che dopo l’Università ci fosse il lavoro statale. Non avevo mai immaginato che esistesse anche l’impresa privata. Nessuno qua in Calabria me lo aveva mai fatto capire“.

Mancano figure di riferimento per chi resta

Il commento di sopra mi ha fatto tornato in mente quando avevo 15 anni. Mia madre mi fece leggere il bando di un concorso come usciere di Banca d’Italia a Teramo. Lavoro sicuro e bella paga: il posto fisso per eccellenza, alla Checco Zalone. Per mia madre, dipendente al Telegrafo e a Poste per 34 anni e che vedeva i benefici (immorali) di chi all’epoca era in Banca d’Italia, quello era *IL* posto di lavoro a cui i figli dovevano ambire. Usciere alla Banca d’Italia di Teramo.

Amo i miei genitori, ma da quel momento non ho più ascoltato nessuno dei loro consigli professionali. Avevo capito che non avevano l’esperienza per darne, e la mia fortuna sono state due persone a cui ho fatto riferimento:

  • Mio nonno paterno, con cui condivido il mio nome. Lui emigrò ventenne in America, fu minatore di carbone in Pennsylvania (ammalandosi anche di black lungs), e infine tornò a casa a lavorare la terra. Da bambino ero affascinato dalle sue storie: il coraggio di viaggiare in terre per me lontane, il non accettare passivamente le situazioni avverse, la sana convinzione che il lavoro onesto, per quanto durissimo, migliori la persona.
  • Antonino Zichichi. Non l’ho mai conosciuto, ma accidenti che impatto ha avuto su di me. Avevo 7 anni quando prese vita il Laboratorio di Fisica Nucleare del Gran Sasso che Zichichi riuscì (incredibilmente) a creare. I telegiornali locali ne parlavano di continuo, e a livello nazionale Ezio Greggio lo rese popolare con le parodie di “Zichichirichì” su Drive In. E mi resi conto che a pochi kilometri da casa mia c’era probabilmente il centro più fenomenale al mondo per la Fisica delle particelle. Già l’argomento mi aveva incuriosito quando – come purtroppo molti in Europa – fui costretto a rimanere in casa nelle settimane post Chernobyl e non ne capivo il motivo. Dissi allora alla mia maestra delle elementari che da grande avrei vinto il Nobel per la Fisica.

Oggi in Italia sono sempre meno le persone capaci di far sognare e ispirare i giovani. Io nel mio piccolo provo a scuotere questo torpore: di ragazzi bravi ne abbiamo tanti, e non lo dico come frase ad effetto. L’ho sperimentato di persona.

Ne ho portati vari a lavorare con me a Conio mentre erano ancora studenti di scuola superiore. Ho visto come si accendevano quando gli venivano date opportunità. E sono orgoglioso di come siano cresciuti come professionisti e soprattutto come persone, in grado di accettare responsabilità senza paure a priori.

L’altro giorno ho esteso un’offerta di lavoro a un ragazzo piemontese a cui avevo consigliato di candidarsi. Ha fatto uno dei colloqui più brillanti a cui io abbia mai assistito, ottimo anche per i canoni della Silicon Valley. Eppure lui faceva fatica a crederci. Mi ha ripetuto: “Vincenzo, apprezzo le tue parole, ma ne dubito. Non sono ancora laureato, queste cose le ho imparate da solo e non penso di essere bravo.”

Che posso aggiungere? A questi ragazzi sin da giovanissimi è stato sempre detto che sono inadeguati. E hanno finito per crederci.

Emigrazione e rimpatrio. Moldova e Cina.

Io non vedo l’emigrazione in sé come una tragedia. Anzi, è da commendare chi va altrove per migliorarsi.

Parliamo di sport. Se fossi un giovane calciatore, quale posto migliore della cantera del Barcelona per crescere, e magari giocare con Messi? O, parlando di basket, approdare nell’NBA nei Lakers di LeBron? È un “Frecciarossa” per aumentare rapidamente le proprie competenze.

Il problema grave sorge dopo. Rimanendo nella metafora sportiva, ti abitui all’NBA, sei apprezzato e stimi i tuoi compagni, stai realizzando i tuoi sogni di vincere il campionato più forte al mondo e sei contento che la tua professionalità venga retribuita con il giusto stipendio. Perché mai dovresti tornare in Italia, nelle leghe minori? Perché passare dal Frecciarossa a un treno regionale?

Vi ricordate l’evoluzione di Shanghai sopra? Bene. Gran parte di quella trasformazione è dovuta al programma con cui la Cina ha rimpatriato nel tempo suoi cittadini professionisti dall’estero. Un ambizioso programma di rientro dei cervelli (海归, “tartarughe marine”, come le chiamano loro), che il governo cinese ha perseguito per decenni favorendo concretamente le imprese di chi tornava in patria lasciando posti migliori. Ne ho parlato brevemente l’anno scorso al punto 20 del mio articolo per l’Innovazione Tecnologica in Italia.

Ora, dimenticate la Cina, e pensate invece alla Moldova. Un Paese europeo con una popolazione di 3,6 Milioni di persone. Popolazione teorica, perché all’estero lavora un terzo dei cittadini moldovi: se poi parliamo di elezioni, i moldovi che vivono all’estero rappresentano addirittura più della metà degli aventi diritto di voto. La Moldova: un Paese ospitale ma che, per via della massiccia diaspora, ha perso le sue energie migliori. Risultato? È il Paese più povero d’Europa, con una economia legata alle rimesse degli emigranti, e con prospettive nulle per i suoi giovani in patria.

Si parla tanto di Cina, e noto che ancora oggi in Italia molta gente fa fatica a capire come abbia fatto a crescere così rapidamente un Paese che fino a poco tempo fa era Terzo Mondo.

Il mio consiglio. La Cina è un Paese che presenta sia pregi che comportamenti riprovevoli; ma invece di guardarla in toto con disprezzo, io invece mi auguro che si prenda ispirazione dai loro programmi di successo. Specialmente quello della contro-emigrazione, con cui la loro economia ha beneficiato alla grande riportando i professionisti in patria. Altrimenti, a percorrere rapidamente il percorso – opposto – verso il Terzo Mondo questa volta sarà l’Italia. La Moldova è purtroppo di monito.

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